E Verona. E Milano. E Milano e Verona. E poi giù.
Arezzo. Roma. Firenze.
Le hai macinate tutte le autostrade, papà. Quanti
posti non hai visto. Sempre con quel cazzo di volante in mano. Sotto la neve,
sotto il sole, a quaranta gradi, a meno venti. Porco demonio sempre dentro quel
cazzo di camion. Tutta la vita. Per tutta la vita. Orari da rispettare, merci
da portare in giro. Filiali. Sta parola l’ho sempre odiata fin da ragazzino.
Cosa vorrà mai dire “filiale”, mi pensavo.
E su e giù. L’Italia te la sei girata peggio di un
merdoso di un politico in campagna elettorale. Hai visto tutto: mari, coste,
strade, puttane che battono, morti dentro allo scatolame grigio delle macchine.
Incidenti. Minchia, quanti incidenti hai visto, papà. E tu manco uno! Tu, manco
un punto dalla patente ti sei fatto togliere. La perfezione in persona.
E avanti e indietro. Sempre co sto volante in mano.
Sempre per quei luridi soldi a fine mese. Sempre sfruttato perché a loro, ai
padroni, non hai mai detto di no. Coi calli nelle mani, le tue mani che
sarebbero state buone per suonare il pianoforte. Invece no, il volante del
camion te le ha fatte venire dure, callose. Cazzo, papà. Non riusciresti
neanche a cogliere un fiore perché sei troppo abituato ad agguantare quel cazzo
di volante. Quanto duro è sto volante? E il sonno? Quanto sonno hai perso,
papà? Guidare di notte è bello, dicono. Sì, se devi fare cinquanta chilometri.
Non se devi andare sempre avanti e indietro da Verona a Milano.
E’ da quando sono nato che ti so in camion. Quella è
diventata la tua casa, la tua famiglia. E io crescevo. E parlavo di canzoni, le
poche ore che ci vedavamo. Che spettacolo papà, quando siamo andati quelle
poche volte a vedere i concerti. Che bello averti con me. Che bello pure quella
volta che sono stato invitato a raccontare Pasolini, nella stessa sala in cui
Stella ha presentato quel libro sulla Casta. Mi dissi che eri orgoglioso di me.
Non me l’avevi mai detto.
Poi la sera sei partito, come tutte le sere. E hai
scopato con quella cazzo di autostrada. E su e giù. Santiddio. Sempre in
strada, pà. Sempre. Mi chiamavi ogni tanto e non mi dicevi un cazzo, papà.
Niente. Mi chiedevi che tempo faceva. Forse ti bastava solo sentirla, la mia
voce. E io non mi sono mai reso conto di questo. Solo adesso lo capisco che
c’ho trent’anni, quasi.
E mai un regalo di compleanno, mai. Neanche a
Natale. Mai. E mi incazzavo per questo. Anzi, ormai mi ci ero abituato. Era
tanto se mi telefonavi per il compleanno a farmi gli auguri.
E quando giocavo te lo ricordi? Ti ricordi quanto
forte ero? Lo sai che giocavo per te? Lo sai che non me ne importava niente dei
complimenti che mi facevano gli altri, i genitori dei miei compagni o
addirittura quelli degli avversari. Dal campo ero tozzo d’acqua, perché tu venivi
a vedere le mie partite. Ti cercavo con lo sguardo in tribuna. Mi bastava un
tuo cenno. Una tua strizzata d’occhio. E io diventavo un toro. Mi mettevi una
carica che manco se sniffavo un camion di cocaina.
E in campo lottavo, perché mi hai fatto robusto,
papà. Quando i difensori facevano a spallate con me li facevo cadere. E poi
segnavo ed esultavo come Luca Toni con la mano che ruotava l'orecchio. Toni
lo faceva per ascoltare il godimento dei suoi tifosi. Io lo facevo per
ascoltare se in mezzo alle urla della tribuna, sentivo la tua voce. Ma non l’ho
mai sentita. Però sapevo che c’era. Lo sapevo.
Stavo per diventare un calciatore, papà. Mi
volevano, si diceva. Forse realizzavo un tuo sogno, non lo so. L’avrei fatto
per te, perché tu andassi fiero di me. Invece poi il destino ha mischiato le
carte. Ed eccomi qui, a scrivere. A cambiare vita. A pregare e bestemmiare. A
non chiederti mai niente perché tu di risposte non me ne hai mai date. Mai.
E allora andiamo avanti senza averci detto mai un
cazzo di “ti voglio bene”.
Mai una carezza. Mai. Quanto avrei avuto bisogno di
una tua carezza o di un tuo abbraccio, papà. E pensavo che non me le davi
perché a me della scuola non me ne è mai fregato niente. Mi sono iscritto in
una scuola dove c’erano solo femmine per scoparle tutte. Ma che ti sto a dire?!
Che ne sai te? Che eri sempre in strada a macinare chilometri e chilometri. Da
Verona a Milano e da Milano a Verona. Sempre avanti e indietro. A farti
umiliare per quei merdosi soldi. Per quei merdosi soldi che il dio del
consumismo ci ha obbligati a desiderare più dell’aria. Ci ha tolto la vita
insieme, papà. Non abbiamo vissuto una vita insieme per colpa sua. Per questo
amo Pasolini. Perché lui mi ha spiegato con chi dovevo incazzarmi. E Gaber. E
De Andrè.
Mi raccontavi che tu ascoltavi Fabrizio fin dal
primo disco. Eri l’unico in paese ad ascoltarlo. Poi sono arrivati gli altri.
Ma dopo di te. Come se avessi avuto un orario da rispettare anche lì. E quanta
musica hai ascoltato, papà. Quante volte mi hai raccontato dei Genesis o di
Tagliapietra de “Le Orme”.
Tu Gaber l’hai pure visto dal vivo. Io sono nato
troppo tardi. Pure sta sfiga ho avuto, papà. E ti ho fatto conoscere Oliviero,
te lo ricordi? Tu che mi dicevi che scriveva da Dio. Che era un poeta. E’ diventato
amico mio, papà. Uno dei miei più cari amici. Perché non l’hai fatto amico tuo?
Perchè tu dovevi partire alla sera, lasciavi a me gli onori. Tu prendevi gli
oneri. Li pigliavi con tutte le mani, sti oneri. Come fossero un volante, da
girare, sempre. E sempre per quello stipendio da fame a fine mese. Per dare
quei cazzo di soldi al figlio “artista”. Mamma mia, quanto la odio sta parola.
E’ un’etichetta che non riesco a togliermi di dosso. E tu zitto! Zitto! Sempre
zitto, Cristo!
Non mi hai mai dato uno schiaffo. Mai. E ne meritavo
tanti. E m’avrebbero fatto pure un male cane, con quelle mani ruvide che c’hai.
Però forse hai pensato che si andava a pari: mai carezze e mai schiaffi. Così si educa un figlio. Così un cazzo, papà!
Così un cazzo!
Che vuoi che ti dica, ora? Che io sono vicino ai
trenta e tu hai passato i sessanta. Cosa vogliamo raccontarci? Che c’è un buco
di una vita in mezzo. Perché tu eri sempre pronto a girare l’Italia con quella
merda di camion. Che Dio mi faccia stare sempre lontano dai camion, papà. Li
odio. Mi hanno impedito di essere tuo figlio.
I valori. I valori che mi hai passato papà, non li
riconosco. Perché io non sono come te e tu questo non l’hai mai accettato. O forse sì.
Io non spacco il minuto, mai. Io non sarei capace di
fare venti ore in una scatola di lamiera, come te.
Io non farei mai la tua vita, papà.
Onestà e dignità. Queste sono le cose che mi hai
sempre detto di ritenere sacre. Perché se devi camminare in centro del paese,
lo devi fare a testa alta. E tu lo fai, papà. Chi vuoi che possa dirti niente?
Chi? Io non posso, per mille motivi. O per uno. Perché siamo agli antipodi.
Siamo due animali diversi. Io non riesco a trattenere niente, tu tutto. Io mi
sono costruito una vita senza orari e stai a vedere che magari li frego. Li
frego io quelli che c’hanno allontanati. Li frego perché io di strada non ne
faccio.
Ho spaccato la faccia a uno, papà. Zigomo e setto
nasale, e lui che sanguinava a terra. Perché non si deve permettere di
infangare il tuo nome. Pensa te, papà. Io ho spaccato quello e tu dopo che mi è
arrivata la denuncia m’hai pure detto una valanga di parole. Mi hai fatto la
morale. Ma non lo capisci che l’ho fatto per te? Ho menato quello, per te. L’ho
menato per i torti che ti ha fatto e che poi conseguentemente ha fatto a me.
Quanto c’ha fatti soffrire, eh papà? Ma tu zitto, porco demonio, zitto sempre.
Vedi che non siamo uguali in niente? Lo vedi? Io
l’ho spaccato a metà! Tu continuavi a subire, passivo a tutto. E allora di che
onestà vuoi che parli? Con che dignità vuoi che mi rivolga a te che al posto di
fare il padre, hai fatto il lavoratore.
E quando sarà ora, papà, quanto piangerò. Accetterò
o no, il fatto che non ti ho mai detto un “ti voglio bene”?
No, papà. Con me hai sbagliato tutto. E io ho
sbagliato tutto con te. Non ci siamo mai capiti. Fotti quel volante e mandalo
affanculo, da parte mia.