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sabato 26 ottobre 2013

I soldi rubati dei sindacati e il non-pensiero dei lavoratori

Tempo fa parlavo con Renato Curcio sulla crisi del lavoro oggi.
Premetto che tutto ciò che scrivo è opinabile ma essendo un cane sciolto ed un intellettuale, mi sento in dovere, verso me stesso, di vomitare tutto ciò che mi fa schifo. 

I pochi italiani lavoratori dipendenti (anche con un contratto di un mese o a chiamata) pagano il pizzo ai sindacati. 
Non importa di che corrente siano, non importa se siano CGIL, CISL, UIL o altri: lo fanno e basta. 
Lo fanno perchè hanno sentito dire che quelli li "proteggono", che i sindacalisti sono dalla parte dei lavoratori eccetera.
Curcio mi faceva notare che i sindacati avevano un senso negli anni sessanta-settanta ma che ora sono solo al soldo dei partiti, anzi - diceva lui - "sono partiti nel vero senso della parola". (Vedi Epifani)
Ma ciò che non mi spiego è l'automatismo mentale per cui una persona lavoratrice dipendente si iscrive ad un sindacato.
Non lo capisco davvero. 
Fermo restando per Landini della Fiom che è mi sembra sia una brava persona e che, lui sì, ha a cuore i lavoratori o almeno così fa credere (sulla Fiom, invece, potremmo parlarne).
I sindacati non sono altro che macchine da soldi che speculano sul non-pensiero dei lavoratori che si iscrivono a queste associazioni a delinquere (è una battuta, credo) che macinano quattrini e che oltre ad avere i tuoi soldi, lavoratore dipendente, hanno anche i tuoi dati. 
Ed i tuoi dati, caro amico, valgono miliardi se vengono venduti, ma anche se loro li vendono ad una qualsiasi multinazionale, tu non lo saprai mai (chiedete al creatore di Facebook o di Twitter se hanno creato i social network per bontà francescana o per fare del business).
Le farse delle Camusso di turno che manifestano in piazza per questo o per quello, rimangono tali. 
Lei col fischietto in bocca a "manifestare" contro chi la paga e a fianco di migliaia di "pecore" che ci credono ancora. 
Se sperate nella rivoluzione, cari lavoratori dipendenti, sappiate che non avverrà mai attraverso questi apparati: avverrà proprio quando vi renderete conto che queste associazioni sono inutili sotto tutti i punti di vista. 
"Ed io pago" direbbe Totò
Sì, ma almeno prima di pagare, accendi il cervello e fatti un paio di domande. 

giovedì 24 ottobre 2013

Le colpe del Fatto Quotidiano

Premetto che del Fatto leggo solo gli articoli di Andrea Scanzi e di Malcom Pagani, perché quando li leggo, mi emoziono.
Quando questo giornale venne fondato, mi abbonai. Poi con l'andare del tempo, mi stancai. 
Primo perché leggere ogni giorno l'editoriale di Travaglio che scrive SEMPRE E SOLO su Berlusconi è di una noia mortificante, della serie "ma questo qui, se Berlusconi non esistesse, che lavoro farebbe?"; secondo perché costa parecchio e se è vero com'è vero che non prendono sovvenzioni statali (e qui, onore al merito, anche se dovrebbe essere una cosa normale. Ahssì, siamo in Italia), mi scoccia pagare un giornale per leggere solo due giornalisti, che non ci sono neanche sempre, tra l'altro.  
In ogni caso, spezzo una lancia a favore di questo giornale. 
A loro insaputa, forse, si sono tolti l'etichetta del "giornale di Grillo" e questa è una medaglia al valore. 
Vuol dire che stanno lavorando bene, vuol dire che sono davvero liberi ma soprattutto vuol dire che non si capisce cosa vuol fare Grillo da grande, anzi, lo si è capito benissimo: accalappiarsi tutti gli scontenti di sinistra, destra, sopra e sotto.
Prima strizzando l'occhio contro l'immigrazione, poi facendo passare una pseudo-disponibilità a stare coi comunisti 2.0. 
Ho idea che il M5S prenderà una mazzata non comune alle prossime europee, nonostante i Fico, i Di Battista e altri bravi politici. 
Ma lo scranno su cui Casaleggio si siede e comanda, ricorda (poco) vagamente le dittature che verranno. 
Stanno perdendo la faccia. 
Chi non l'ha persa è stato il Fatto, appunto, soprattutto quando Grillo dal suo blog ha attaccato Scanzi, dicendo, in soldoni, che lui non aveva bisogno di "difensori" e dandogli dello zerbino.
Conoscendo Andrea e, chi lo legge lo sa, questo non complimento di Beppe gli ha fatto solo che piacere. 
Di giornalisti zerbini e al soldo dei partiti/movimenti ce ne sono fin troppi (e non cito Fazio, perchè sarebbe come sparare sulla Croce Rossa).
Uno a zero per il Fatto, dunque, che da quando è nato ha sempre avuto un'impronta popolare e popolana, dalla parte dei cittadini e, soprattutto, dalla parte della Costituzione, cosa che Grillo (più dei suoi adepti) paiono dimenticare. 

domenica 13 ottobre 2013

Il paese degli sciacalli: tre eroi a confronto

Stamani ho letto quelle poche righe, come (quasi) sempre illuminanti, di Aldo Grasso su Pietro Mennea.
Al di là di ciò che ha rappresentato e rappresenta Pietro per me, per noi tutti, credo che la notizia sia schifosa per i figli, per la famiglia ed anche un po' per noi.
Tuttavia, da quello che posso immaginare, credo che a lui, a Pietro, non gliene importi un fico secco.
Che se la tengano sta fottuta eredità, fatene quelle che volete. Io quello che dovevo dare, ho dato.
Immagino che dica ste frasi e lo immagino, sì, proprio ora e soprattutto ora, a correre.
Lo immagino con la canotta azzurra e con il fisico da ragazzo giovane, coi capelli neri che taglia un traguardo, agitando le braccia in segno di vittoria, e nel mentre, spostare in un movimento inconscio la mandibola, come quella volta.
Che Pietro fosse anche un uomo eccezionale, straordinario eccetera è cosa nota.
Ma quest'opera di sciacallaggio è davvero vomitevole, chi lo ama, come il sottoscritto, non può accettare che qualcuno si approfitti di lui. No, questo non glielo dovete fare.
Anima limpida e pura, Pietro Mennea da Barletta, anno di nascita millenovecentocinquantadue.
E qui l'emozione ed il trasporto mi portano ad un altro come lui, un altro eroe epico, un altro sportivo sublime, ma soprattutto, un grande uomo: Gaetano Scirea.
A Gaetano (che ha "causato" sin da piccolo il mio spasmodico tifo juventino) l'hanno lasciato stare, anche perchè il figlio Riccardo e la moglie Mariella sono persone meravigliose e hanno custodito il ricordo del Capitano e dell'Uomo come reliquia da mostrare a chiunque ne abbia bisogno.
Sì, perchè quel tipo di uomini sono come una ricarica vitale: quando pensi a loro, a cosa sono stati, stai meglio.
E non parlo di un altro mio eroe perchè altrimenti rischio di commuovermi, come sempre.
Sto parlando di Marco Pantani, per tutti "Il Pirata", pure lui vittima di sciacalli anche da vivo, anche quando non ce la faceva più, anche quando quel suo sorriso romagnolo in realtà urlava un "lasciatemi in pace!!!".
Eh no, caro Marco, non ti hanno lasciato in pace all'epoca e non ti lasceranno in pace mai.
Ma ciò che importa è che nella tua vita, correndo in bicicletta, hai lasciato una traccia indelebile nelle anime di chi ti ha amato.



sabato 12 ottobre 2013

"Zitto" - Lettera a mio padre

E Verona. E Milano. E Milano e Verona. E poi giù. Arezzo. Roma. Firenze.
Le hai macinate tutte le autostrade, papà. Quanti posti non hai visto. Sempre con quel cazzo di volante in mano. Sotto la neve, sotto il sole, a quaranta gradi, a meno venti. Porco demonio sempre dentro quel cazzo di camion. Tutta la vita. Per tutta la vita. Orari da rispettare, merci da portare in giro. Filiali. Sta parola l’ho sempre odiata fin da ragazzino. Cosa vorrà mai dire “filiale”, mi pensavo.
E su e giù. L’Italia te la sei girata peggio di un merdoso di un politico in campagna elettorale. Hai visto tutto: mari, coste, strade, puttane che battono, morti dentro allo scatolame grigio delle macchine. Incidenti. Minchia, quanti incidenti hai visto, papà. E tu manco uno! Tu, manco un punto dalla patente ti sei fatto togliere. La perfezione in persona.
E avanti e indietro. Sempre co sto volante in mano. Sempre per quei luridi soldi a fine mese. Sempre sfruttato perché a loro, ai padroni, non hai mai detto di no. Coi calli nelle mani, le tue mani che sarebbero state buone per suonare il pianoforte. Invece no, il volante del camion te le ha fatte venire dure, callose. Cazzo, papà. Non riusciresti neanche a cogliere un fiore perché sei troppo abituato ad agguantare quel cazzo di volante. Quanto duro è sto volante? E il sonno? Quanto sonno hai perso, papà? Guidare di notte è bello, dicono. Sì, se devi fare cinquanta chilometri. Non se devi andare sempre avanti e indietro da Verona a Milano.
E’ da quando sono nato che ti so in camion. Quella è diventata la tua casa, la tua famiglia. E io crescevo. E parlavo di canzoni, le poche ore che ci vedavamo. Che spettacolo papà, quando siamo andati quelle poche volte a vedere i concerti. Che bello averti con me. Che bello pure quella volta che sono stato invitato a raccontare Pasolini, nella stessa sala in cui Stella ha presentato quel libro sulla Casta. Mi dissi che eri orgoglioso di me. Non me l’avevi mai detto.
Poi la sera sei partito, come tutte le sere. E hai scopato con quella cazzo di autostrada. E su e giù. Santiddio. Sempre in strada, pà. Sempre. Mi chiamavi ogni tanto e non mi dicevi un cazzo, papà. Niente. Mi chiedevi che tempo faceva. Forse ti bastava solo sentirla, la mia voce. E io non mi sono mai reso conto di questo. Solo adesso lo capisco che c’ho trent’anni, quasi.
E mai un regalo di compleanno, mai. Neanche a Natale. Mai. E mi incazzavo per questo. Anzi, ormai mi ci ero abituato. Era tanto se mi telefonavi per il compleanno a farmi gli auguri.
E quando giocavo te lo ricordi? Ti ricordi quanto forte ero? Lo sai che giocavo per te? Lo sai che non me ne importava niente dei complimenti che mi facevano gli altri, i genitori dei miei compagni o addirittura quelli degli avversari. Dal campo ero tozzo d’acqua, perché tu venivi a vedere le mie partite. Ti cercavo con lo sguardo in tribuna. Mi bastava un tuo cenno. Una tua strizzata d’occhio. E io diventavo un toro. Mi mettevi una carica che manco se sniffavo un camion di cocaina.
E in campo lottavo, perché mi hai fatto robusto, papà. Quando i difensori facevano a spallate con me li facevo cadere. E poi segnavo ed esultavo come Luca Toni con la mano che ruotava l'orecchio. Toni lo faceva per ascoltare il godimento dei suoi tifosi. Io lo facevo per ascoltare se in mezzo alle urla della tribuna, sentivo la tua voce. Ma non l’ho mai sentita. Però sapevo che c’era. Lo sapevo.
Stavo per diventare un calciatore, papà. Mi volevano, si diceva. Forse realizzavo un tuo sogno, non lo so. L’avrei fatto per te, perché tu andassi fiero di me. Invece poi il destino ha mischiato le carte. Ed eccomi qui, a scrivere. A cambiare vita. A pregare e bestemmiare. A non chiederti mai niente perché tu di risposte non me ne hai mai date. Mai.
E allora andiamo avanti senza averci detto mai un cazzo di “ti voglio bene”.
Mai una carezza. Mai. Quanto avrei avuto bisogno di una tua carezza o di un tuo abbraccio, papà. E pensavo che non me le davi perché a me della scuola non me ne è mai fregato niente. Mi sono iscritto in una scuola dove c’erano solo femmine per scoparle tutte. Ma che ti sto a dire?! Che ne sai te? Che eri sempre in strada a macinare chilometri e chilometri. Da Verona a Milano e da Milano a Verona. Sempre avanti e indietro. A farti umiliare per quei merdosi soldi. Per quei merdosi soldi che il dio del consumismo ci ha obbligati a desiderare più dell’aria. Ci ha tolto la vita insieme, papà. Non abbiamo vissuto una vita insieme per colpa sua. Per questo amo Pasolini. Perché lui mi ha spiegato con chi dovevo incazzarmi. E Gaber. E De Andrè.
Mi raccontavi che tu ascoltavi Fabrizio fin dal primo disco. Eri l’unico in paese ad ascoltarlo. Poi sono arrivati gli altri. Ma dopo di te. Come se avessi avuto un orario da rispettare anche lì. E quanta musica hai ascoltato, papà. Quante volte mi hai raccontato dei Genesis o di Tagliapietra de “Le Orme”.
Tu Gaber l’hai pure visto dal vivo. Io sono nato troppo tardi. Pure sta sfiga ho avuto, papà. E ti ho fatto conoscere Oliviero, te lo ricordi? Tu che mi dicevi che scriveva da Dio. Che era un poeta. E’ diventato amico mio, papà. Uno dei miei più cari amici. Perché non l’hai fatto amico tuo? Perchè tu dovevi partire alla sera, lasciavi a me gli onori. Tu prendevi gli oneri. Li pigliavi con tutte le mani, sti oneri. Come fossero un volante, da girare, sempre. E sempre per quello stipendio da fame a fine mese. Per dare quei cazzo di soldi al figlio “artista”. Mamma mia, quanto la odio sta parola. E’ un’etichetta che non riesco a togliermi di dosso. E tu zitto! Zitto! Sempre zitto, Cristo!
Non mi hai mai dato uno schiaffo. Mai. E ne meritavo tanti. E m’avrebbero fatto pure un male cane, con quelle mani ruvide che c’hai. Però forse hai pensato che si andava a pari: mai carezze e mai schiaffi.  Così si educa un figlio. Così un cazzo, papà! Così un cazzo!
Che vuoi che ti dica, ora? Che io sono vicino ai trenta e tu hai passato i sessanta. Cosa vogliamo raccontarci? Che c’è un buco di una vita in mezzo. Perché tu eri sempre pronto a girare l’Italia con quella merda di camion. Che Dio mi faccia stare sempre lontano dai camion, papà. Li odio. Mi hanno impedito di essere tuo figlio.
I valori. I valori che mi hai passato papà, non li riconosco. Perché io non sono come te e tu questo non l’hai mai accettato.  O forse sì.
Io non spacco il minuto, mai. Io non sarei capace di fare venti ore in una scatola di lamiera, come te.
Io non farei mai la tua vita, papà.
Onestà e dignità. Queste sono le cose che mi hai sempre detto di ritenere sacre. Perché se devi camminare in centro del paese, lo devi fare a testa alta. E tu lo fai, papà. Chi vuoi che possa dirti niente? Chi? Io non posso, per mille motivi. O per uno. Perché siamo agli antipodi. Siamo due animali diversi. Io non riesco a trattenere niente, tu tutto. Io mi sono costruito una vita senza orari e stai a vedere che magari li frego. Li frego io quelli che c’hanno allontanati. Li frego perché io di strada non ne faccio.
Ho spaccato la faccia a uno, papà. Zigomo e setto nasale, e lui che sanguinava a terra. Perché non si deve permettere di infangare il tuo nome. Pensa te, papà. Io ho spaccato quello e tu dopo che mi è arrivata la denuncia m’hai pure detto una valanga di parole. Mi hai fatto la morale. Ma non lo capisci che l’ho fatto per te? Ho menato quello, per te. L’ho menato per i torti che ti ha fatto e che poi conseguentemente ha fatto a me. Quanto c’ha fatti soffrire, eh papà? Ma tu zitto, porco demonio, zitto sempre.
Vedi che non siamo uguali in niente? Lo vedi? Io l’ho spaccato a metà! Tu continuavi a subire, passivo a tutto. E allora di che onestà vuoi che parli? Con che dignità vuoi che mi rivolga a te che al posto di fare il padre, hai fatto il lavoratore.
E quando sarà ora, papà, quanto piangerò. Accetterò o no, il fatto che non ti ho mai detto un “ti voglio bene”?

No, papà. Con me hai sbagliato tutto. E io ho sbagliato tutto con te. Non ci siamo mai capiti. Fotti quel volante e mandalo affanculo, da parte mia. 

giovedì 3 ottobre 2013

Si fa e basta

Quando arrivano non chiedono il permesso e nemmeno se c'è posto.
Quando arrivano, arrivano.
E non importa cosa si stia facendo, se si è impegnati in altre faccende o se si è in una crisi economica bestiale.
Quando un popolo migra, non ha tempo per chiedere il permesso di farlo.
Lo fa e basta.
Lo fa perchè altrimenti ci lascia la pelle, lo fa perchè non riesce a campare. Difficile che lo faccia per turismo o perchè ha del tempo da perdere.
Lo fa per disperazione.
Che è la stessa che prende noi italiani, oggi, come negli anni trenta, emigrare verso chissà quali posti, parlare chissà quali lingue, adattarsi a chissà quali stili di vita.
Si fugge per disperazione, si ama per disperazione e si muore per disperazione.
L'umanità con cui la gente di Lampedusa, con in testa il Sindaco, donna meravigliosa, accoglie i migranti è meravigliosa.
Senza tante parole, quelle, gli abitanti di Lampedusa, le lasciano ai politici.
Si svegliano nel mezzo della notte, pigliano, si vestono e vanno a "scaricare" quelle zattere piene di umanità, spesso piene di morte.
Non si chiedono il perchè lo fanno. Lo fanno e basta.

E' come Gino Bartali, il nostro grande campione che salvò centinaia di ebrei con la sua bicicletta.
Non si è mai chiesto se rischiava, se ne valesse la pena. Lo faceva e basta. E non lo ha neanche mai detto a nessuno.

Che bel popolo che siamo quando facciamo il bene senza parlare.