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sabato 25 gennaio 2014

Fuga dalle mattonelle

Gratto con le unghie sulle mattonelle del cesso. E dopo un po' le unghie sanguinano e noi ci mettiamo le dita in bocca, in un gesto ancestrale che ci riporta bambini. Siamo io e mio fratello, malato da tempo.
Grattiamo ste minchia di mattonelle, fratello mio, che magari da sto cesso ne esce qualcosa. 
Grattiamole finchè abbiamo ancora unghie, finché i nervi delle braccia tengono botta.
E le mattonelle, maledette, resistono. Non un graffio a loro. E noi lì a sanguinare come sanguina un capretto scuoiato a Pasqua. Ci abbracciamo e le lacrime sembrano lavare le fughe nere delle mattonelle
Siamo al buio da tre giorni. Ho detto a Luca, mio figlio più grande chè solo un guasto e che a breve sistemano.
Apro il frigo che abbonda di limoni verdi, marci, da buttare nell'umido. Sì perchè è giusto avere la raccolta differenziata, perchè i resti di cibo vanno con i resti di cibo. Ma quale cibo? Ma quali resti?
E' mattina ed ho ancora le unghie rotte mentre sento il postino che arriva. 
Eccola, la busta verde. 
Un bollo non pagato nel duemilaeotto di quel cesso di macchina che avevamo, ora ci costa un botto. 
E io te l'ho detto, amore mio, che i bolli vanno pagati e che l'assicurazione va pagata. 
Vanno pagate ste cose, ascolta me, che sono uomo e ste cose me le insegnò mio padre. 
Come dici? Con quali soldi le paghiamo? 
Non preoccuparti che in qualche modo li rimedio. Tu intanto fai la pasta con l'olio ai ragazzini che io vado in cerca di sti soldi. 
Vado a cercare qualcuno che mi dia una mano, fratello mio, tu aspettami qua.
Prima passo alla Caritas, così prendo il pane per stasera. Eh, che dici?
Mi vedo con uno che presta i soldi e che per prestarmi mille euro ne rivuole milleduecento tra trenta giorni.
Va bene, con sti mille euro, pago l'Enel e ci ridanno la luce così il bambino capisce che l'altra sera era veramente un guasto.
Pago la bolletta e porto a casa un po' di pane. 
Mi chiudo in bagno, come quando ero ragazzo che mi masturbavo, ma qui non c'è orgasmo da aspettare, qui ci sono solo ste cazzo di mattonelle.
Mia moglie mi chiama, è pronto il pranzo. 
Come? No, non ho fame, ho un po' di mal di stomaco. Dai pure da mangiare ai piccoli.
E intanto la luce si accende.
Hai visto Luca? Hai visto papà che era solo un guasto, ora puoi accendere la televisione e guardare i cartoni.
Amore, io vado in paese. Vado a cercare se qualcuno ha bisogno di una mano e magari rimedio venti euro. 
Bacio i bambini e mia moglie, come ogni giorno.
E tu, fratello mio, non temere, vedrai che tutto passerà e che riuscirò a prenderti ste cure che ti ha ordinato il dottore. Appena faccio due soldi, vedrai come cambia. 
Mi sono rimasti settecento euro dai mille che mi ha dato l'usuraio. 
Li metto nel cassetto del comodino, a fianco al letto. 
Così qualcuno li troverà.
Io vado, ciao a tutti. A stasera.
Prendo la macchina in riserva. Parcheggio e lascio le chiavi sotto il tappetino.
E' freddissimo. Ci saranno un paio di gradi. 
Mi ero tenuto dieci euro per prendere una bottiglia di Sambuca al discount.
La bevo tutta.
Vomito e barcollo.
Stringo forte un rosario che mi regalò mia madre quando ero piccolo.
Scendo le sterpaglie in modo che nessuno mi veda.
Mi faccio il segno della croce e che Dio mi perdoni.
Mamma sto arrivando.


venerdì 20 dicembre 2013

Forconi: imparate dai NO TAV

L'etichetta di "intellettuale" che mi è stata appiccicata mi spinge a dire la mia sul cosiddetto "movimento dei forconi".
A dire il vero non ho ancora capito bene da che accozzaglia di persone essi si siano formati, sicuramente da gente. Gente stanca, come tutti noi.
E mentre tutti gli intellettuali radical chic, compreso il grande Dario Fo (che non fa di certo parte di questa categoria), sottolineano il non-pensiero ma l'agire caotico di queste persone, mi sorge una domanda che vorrei porre anche al lettore: qual è lo scopo?
Se questo è un movimento unitario (e non lo è) avrebbero tutta l'approvazione del popolo, essendo essi stessi ex-borghesi ritrovatisi in miseria, ma tra di loro ci sono certamente degli sciamannati pronti a mettere a ferro e fuoco le nostre città.
Non voglio passare per perbenista, non lo sarò mai, ma se la tanto fagocitata "Rivoluzione" che i Forconi stanno sbandierando a destra e a manca, non esiste. 
Non esiste perché presidiare un casello autostradale, facendo perdere ore di sonno ai camionisti (ad esempio) è del tutto inutile e senza nessun senso. 
La protesta (ma protesta su quali basi?) non vi è e non vi è nemmeno un'idea di cosa voglia dire andare contro il potere. 
Chi protesta veramente, con le armi a loro disposizione, sono i NO TAV, gente defraudata della propria terra per un'opera buona sola a far intascare danari ai faccendieri e alle imprese edili che, fatalità hanno vinto gli appalti per costruire un treno del tutto inutile, visto che il commercio estero, ma anche interno, è completamente morto. 
Imparassero l'organizzazione dei NO DAL MOLIN, altra eredità che la vecchia DC ha lasciato ai cari americani per costruire basi Nato, e non cito il premio Nobel per la pace Obama. (...)
Bene hanno fatto, invece, ad andare ad occupare le sedi di Equitalia, l'ente voluto da quel vampiro di Monti, per succhiare l'ultima goccia di sangue al proprio popolo. 
E' fuffa usare come scusa "siamo stanchi di questa situazione di miseria!". 
Ma non siamo mica agli scioperi alle Scuole Superiori!
Ma di cosa stiamo parlando? Suvvia!
Non appartengo ai Forconi (come da uomo libero non appartengo a niente e a nessuno) almeno fino a che non se ne vanno nelle sedi televisive, interrompendo le trasmissioni del bellodecasa Giletti e di Carlo Conti. Gente che non ha motivo d'esistere e che prendono vagonate di soldi (nostri).
Che vadano nei vari Ministeri, che vadano a prendere per il colletto Letta e gli altri massoni. 
In questo momento stanno facendo solo chiasso che il populino ignorante e becero lo prende come l'arrivo degli americani negli anni '40.
Ma non fatemi ridere. 
Rispetto massimo per chi protesta, anche se protestassero contro le patatine fritte, per carità di dio, ma non confondiamo le cose. 
E quei (pochi) poliziotti, attenzione: non Carabinieri (...), che si sono levati il casco ora se lo sono rimesso perché è inamissibile che in nome del nulla rompano vetrine di un salumiere che per far quadrare il bilancio deve fare i salti mortali. 
I punti strategici del potere ci sono: andate lì. 

domenica 15 dicembre 2013

"La Mafia uccide solo d'estate": l'importanza di PIF

Quelli della mia generazione, si ricordano a memoria alcune cose riguardo alla Sicilia dei primi del '90 o almeno questo vale per me.
Quando chiedevo ai miei del perché questi uomini fossero così cattivi, ammè mi rispondevano "di non preoccuparmi che tanto quelli stavano in Sicilia, mica a Padova".
Poi però il botto delle bombe del '92 (e le successive) le ho sentite fino a Padova.
Mi interessava capire.
Mi dicevo "Ma se la guerra c'è già in Jugoslavia? Questi perché la vogliono fare anche qui in Italia?".
Poi, successivamente, il cognome che porto e che inevitabilmente si collega a quella terra ha fatto sì che mi "innamorassi" di quelle vicende.
Ho letto e riletto decine di libri, guardato e riguardato speciali e documentari, visto e rivisto film su film.
La Sicilia oggi è un semplice luogo come qualsiasi altro, in Italia.
E' pregna di Mafia come può essere il Piemonte o il Molise.
Cos'è la Mafia, mi sono chiesto negli anni? La Mafia, è bene ribadirlo, non si manifesta più (o perlomeno speriamolo) con le stragi degli anni '80 e '90.
La Mafia è una semplice raccomandazione, è un appalto truccato, è un taroccamento di bilancio, è la "spintarella", è sporcarsi le mani il meno possibile, è il "gioco" dei rifiuti rimbalzati da nord a sud.
Ma che minchia è sta Mafia?
Chi sono i mafiosi, i Corleonesi?
Certo che sì.
Ma insomma ce ne siamo liberati, oggi che stiamo mandando a cuocere il 2013, di sta tirannìa?
Assolutamente no.

La Mafia non fa più stragi, è vero.
Perché ha capito che non le conviene.
Ha capito che gli Uomini di Stato è meglio comprarli invece che ammazzarli, così c'è meno casino.
La Mafia E' lo Stato. E viceversa.
Sono un'unica entità che si muove attraverso gli stessi mezzi. Nelle stesse maniere.

Ho visto il film di Pierfrancesco Diliberto, detto PIF.
La trama, ovviamente, la sapevo a memoria.
Ma quando facevano vedere la barba di Giovanni Falcone e la mano che regge la sigaretta di Paolo Borsellino mi è venuto un brivido.
Lo Stato ha cessato d'essere tale da quando questi due signori sono saltati per aria.
Ne sono rimasti pochi a combattere la Mafia: Gratteri su tutti.
Altri hanno preferito fare carriera politica, forse obbligati o forse fulminati sulla via di Damasco.

Bravo PIF, hai obbedito al comandamento di Paolo Borsellino, un Santo Laico, che diceva ".. parlatene ovunque: nelle scuole, nei bar, negli oratori..".
Questo film è la diretta testimonianza di una ribellione civile ed intellettuale di chi non ci sta a questo Stato completamente mafioso e usa i mezzi che ha a disposizione, in questo caso un film, per spiegare a chi non c'era che quei botti scoppiati a Palermo nel '92, si sentivano molto bene anche a Padova.

sabato 26 ottobre 2013

I soldi rubati dei sindacati e il non-pensiero dei lavoratori

Tempo fa parlavo con Renato Curcio sulla crisi del lavoro oggi.
Premetto che tutto ciò che scrivo è opinabile ma essendo un cane sciolto ed un intellettuale, mi sento in dovere, verso me stesso, di vomitare tutto ciò che mi fa schifo. 

I pochi italiani lavoratori dipendenti (anche con un contratto di un mese o a chiamata) pagano il pizzo ai sindacati. 
Non importa di che corrente siano, non importa se siano CGIL, CISL, UIL o altri: lo fanno e basta. 
Lo fanno perchè hanno sentito dire che quelli li "proteggono", che i sindacalisti sono dalla parte dei lavoratori eccetera.
Curcio mi faceva notare che i sindacati avevano un senso negli anni sessanta-settanta ma che ora sono solo al soldo dei partiti, anzi - diceva lui - "sono partiti nel vero senso della parola". (Vedi Epifani)
Ma ciò che non mi spiego è l'automatismo mentale per cui una persona lavoratrice dipendente si iscrive ad un sindacato.
Non lo capisco davvero. 
Fermo restando per Landini della Fiom che è mi sembra sia una brava persona e che, lui sì, ha a cuore i lavoratori o almeno così fa credere (sulla Fiom, invece, potremmo parlarne).
I sindacati non sono altro che macchine da soldi che speculano sul non-pensiero dei lavoratori che si iscrivono a queste associazioni a delinquere (è una battuta, credo) che macinano quattrini e che oltre ad avere i tuoi soldi, lavoratore dipendente, hanno anche i tuoi dati. 
Ed i tuoi dati, caro amico, valgono miliardi se vengono venduti, ma anche se loro li vendono ad una qualsiasi multinazionale, tu non lo saprai mai (chiedete al creatore di Facebook o di Twitter se hanno creato i social network per bontà francescana o per fare del business).
Le farse delle Camusso di turno che manifestano in piazza per questo o per quello, rimangono tali. 
Lei col fischietto in bocca a "manifestare" contro chi la paga e a fianco di migliaia di "pecore" che ci credono ancora. 
Se sperate nella rivoluzione, cari lavoratori dipendenti, sappiate che non avverrà mai attraverso questi apparati: avverrà proprio quando vi renderete conto che queste associazioni sono inutili sotto tutti i punti di vista. 
"Ed io pago" direbbe Totò
Sì, ma almeno prima di pagare, accendi il cervello e fatti un paio di domande. 

giovedì 24 ottobre 2013

Le colpe del Fatto Quotidiano

Premetto che del Fatto leggo solo gli articoli di Andrea Scanzi e di Malcom Pagani, perché quando li leggo, mi emoziono.
Quando questo giornale venne fondato, mi abbonai. Poi con l'andare del tempo, mi stancai. 
Primo perché leggere ogni giorno l'editoriale di Travaglio che scrive SEMPRE E SOLO su Berlusconi è di una noia mortificante, della serie "ma questo qui, se Berlusconi non esistesse, che lavoro farebbe?"; secondo perché costa parecchio e se è vero com'è vero che non prendono sovvenzioni statali (e qui, onore al merito, anche se dovrebbe essere una cosa normale. Ahssì, siamo in Italia), mi scoccia pagare un giornale per leggere solo due giornalisti, che non ci sono neanche sempre, tra l'altro.  
In ogni caso, spezzo una lancia a favore di questo giornale. 
A loro insaputa, forse, si sono tolti l'etichetta del "giornale di Grillo" e questa è una medaglia al valore. 
Vuol dire che stanno lavorando bene, vuol dire che sono davvero liberi ma soprattutto vuol dire che non si capisce cosa vuol fare Grillo da grande, anzi, lo si è capito benissimo: accalappiarsi tutti gli scontenti di sinistra, destra, sopra e sotto.
Prima strizzando l'occhio contro l'immigrazione, poi facendo passare una pseudo-disponibilità a stare coi comunisti 2.0. 
Ho idea che il M5S prenderà una mazzata non comune alle prossime europee, nonostante i Fico, i Di Battista e altri bravi politici. 
Ma lo scranno su cui Casaleggio si siede e comanda, ricorda (poco) vagamente le dittature che verranno. 
Stanno perdendo la faccia. 
Chi non l'ha persa è stato il Fatto, appunto, soprattutto quando Grillo dal suo blog ha attaccato Scanzi, dicendo, in soldoni, che lui non aveva bisogno di "difensori" e dandogli dello zerbino.
Conoscendo Andrea e, chi lo legge lo sa, questo non complimento di Beppe gli ha fatto solo che piacere. 
Di giornalisti zerbini e al soldo dei partiti/movimenti ce ne sono fin troppi (e non cito Fazio, perchè sarebbe come sparare sulla Croce Rossa).
Uno a zero per il Fatto, dunque, che da quando è nato ha sempre avuto un'impronta popolare e popolana, dalla parte dei cittadini e, soprattutto, dalla parte della Costituzione, cosa che Grillo (più dei suoi adepti) paiono dimenticare. 

domenica 13 ottobre 2013

Il paese degli sciacalli: tre eroi a confronto

Stamani ho letto quelle poche righe, come (quasi) sempre illuminanti, di Aldo Grasso su Pietro Mennea.
Al di là di ciò che ha rappresentato e rappresenta Pietro per me, per noi tutti, credo che la notizia sia schifosa per i figli, per la famiglia ed anche un po' per noi.
Tuttavia, da quello che posso immaginare, credo che a lui, a Pietro, non gliene importi un fico secco.
Che se la tengano sta fottuta eredità, fatene quelle che volete. Io quello che dovevo dare, ho dato.
Immagino che dica ste frasi e lo immagino, sì, proprio ora e soprattutto ora, a correre.
Lo immagino con la canotta azzurra e con il fisico da ragazzo giovane, coi capelli neri che taglia un traguardo, agitando le braccia in segno di vittoria, e nel mentre, spostare in un movimento inconscio la mandibola, come quella volta.
Che Pietro fosse anche un uomo eccezionale, straordinario eccetera è cosa nota.
Ma quest'opera di sciacallaggio è davvero vomitevole, chi lo ama, come il sottoscritto, non può accettare che qualcuno si approfitti di lui. No, questo non glielo dovete fare.
Anima limpida e pura, Pietro Mennea da Barletta, anno di nascita millenovecentocinquantadue.
E qui l'emozione ed il trasporto mi portano ad un altro come lui, un altro eroe epico, un altro sportivo sublime, ma soprattutto, un grande uomo: Gaetano Scirea.
A Gaetano (che ha "causato" sin da piccolo il mio spasmodico tifo juventino) l'hanno lasciato stare, anche perchè il figlio Riccardo e la moglie Mariella sono persone meravigliose e hanno custodito il ricordo del Capitano e dell'Uomo come reliquia da mostrare a chiunque ne abbia bisogno.
Sì, perchè quel tipo di uomini sono come una ricarica vitale: quando pensi a loro, a cosa sono stati, stai meglio.
E non parlo di un altro mio eroe perchè altrimenti rischio di commuovermi, come sempre.
Sto parlando di Marco Pantani, per tutti "Il Pirata", pure lui vittima di sciacalli anche da vivo, anche quando non ce la faceva più, anche quando quel suo sorriso romagnolo in realtà urlava un "lasciatemi in pace!!!".
Eh no, caro Marco, non ti hanno lasciato in pace all'epoca e non ti lasceranno in pace mai.
Ma ciò che importa è che nella tua vita, correndo in bicicletta, hai lasciato una traccia indelebile nelle anime di chi ti ha amato.



sabato 12 ottobre 2013

"Zitto" - Lettera a mio padre

E Verona. E Milano. E Milano e Verona. E poi giù. Arezzo. Roma. Firenze.
Le hai macinate tutte le autostrade, papà. Quanti posti non hai visto. Sempre con quel cazzo di volante in mano. Sotto la neve, sotto il sole, a quaranta gradi, a meno venti. Porco demonio sempre dentro quel cazzo di camion. Tutta la vita. Per tutta la vita. Orari da rispettare, merci da portare in giro. Filiali. Sta parola l’ho sempre odiata fin da ragazzino. Cosa vorrà mai dire “filiale”, mi pensavo.
E su e giù. L’Italia te la sei girata peggio di un merdoso di un politico in campagna elettorale. Hai visto tutto: mari, coste, strade, puttane che battono, morti dentro allo scatolame grigio delle macchine. Incidenti. Minchia, quanti incidenti hai visto, papà. E tu manco uno! Tu, manco un punto dalla patente ti sei fatto togliere. La perfezione in persona.
E avanti e indietro. Sempre co sto volante in mano. Sempre per quei luridi soldi a fine mese. Sempre sfruttato perché a loro, ai padroni, non hai mai detto di no. Coi calli nelle mani, le tue mani che sarebbero state buone per suonare il pianoforte. Invece no, il volante del camion te le ha fatte venire dure, callose. Cazzo, papà. Non riusciresti neanche a cogliere un fiore perché sei troppo abituato ad agguantare quel cazzo di volante. Quanto duro è sto volante? E il sonno? Quanto sonno hai perso, papà? Guidare di notte è bello, dicono. Sì, se devi fare cinquanta chilometri. Non se devi andare sempre avanti e indietro da Verona a Milano.
E’ da quando sono nato che ti so in camion. Quella è diventata la tua casa, la tua famiglia. E io crescevo. E parlavo di canzoni, le poche ore che ci vedavamo. Che spettacolo papà, quando siamo andati quelle poche volte a vedere i concerti. Che bello averti con me. Che bello pure quella volta che sono stato invitato a raccontare Pasolini, nella stessa sala in cui Stella ha presentato quel libro sulla Casta. Mi dissi che eri orgoglioso di me. Non me l’avevi mai detto.
Poi la sera sei partito, come tutte le sere. E hai scopato con quella cazzo di autostrada. E su e giù. Santiddio. Sempre in strada, pà. Sempre. Mi chiamavi ogni tanto e non mi dicevi un cazzo, papà. Niente. Mi chiedevi che tempo faceva. Forse ti bastava solo sentirla, la mia voce. E io non mi sono mai reso conto di questo. Solo adesso lo capisco che c’ho trent’anni, quasi.
E mai un regalo di compleanno, mai. Neanche a Natale. Mai. E mi incazzavo per questo. Anzi, ormai mi ci ero abituato. Era tanto se mi telefonavi per il compleanno a farmi gli auguri.
E quando giocavo te lo ricordi? Ti ricordi quanto forte ero? Lo sai che giocavo per te? Lo sai che non me ne importava niente dei complimenti che mi facevano gli altri, i genitori dei miei compagni o addirittura quelli degli avversari. Dal campo ero tozzo d’acqua, perché tu venivi a vedere le mie partite. Ti cercavo con lo sguardo in tribuna. Mi bastava un tuo cenno. Una tua strizzata d’occhio. E io diventavo un toro. Mi mettevi una carica che manco se sniffavo un camion di cocaina.
E in campo lottavo, perché mi hai fatto robusto, papà. Quando i difensori facevano a spallate con me li facevo cadere. E poi segnavo ed esultavo come Luca Toni con la mano che ruotava l'orecchio. Toni lo faceva per ascoltare il godimento dei suoi tifosi. Io lo facevo per ascoltare se in mezzo alle urla della tribuna, sentivo la tua voce. Ma non l’ho mai sentita. Però sapevo che c’era. Lo sapevo.
Stavo per diventare un calciatore, papà. Mi volevano, si diceva. Forse realizzavo un tuo sogno, non lo so. L’avrei fatto per te, perché tu andassi fiero di me. Invece poi il destino ha mischiato le carte. Ed eccomi qui, a scrivere. A cambiare vita. A pregare e bestemmiare. A non chiederti mai niente perché tu di risposte non me ne hai mai date. Mai.
E allora andiamo avanti senza averci detto mai un cazzo di “ti voglio bene”.
Mai una carezza. Mai. Quanto avrei avuto bisogno di una tua carezza o di un tuo abbraccio, papà. E pensavo che non me le davi perché a me della scuola non me ne è mai fregato niente. Mi sono iscritto in una scuola dove c’erano solo femmine per scoparle tutte. Ma che ti sto a dire?! Che ne sai te? Che eri sempre in strada a macinare chilometri e chilometri. Da Verona a Milano e da Milano a Verona. Sempre avanti e indietro. A farti umiliare per quei merdosi soldi. Per quei merdosi soldi che il dio del consumismo ci ha obbligati a desiderare più dell’aria. Ci ha tolto la vita insieme, papà. Non abbiamo vissuto una vita insieme per colpa sua. Per questo amo Pasolini. Perché lui mi ha spiegato con chi dovevo incazzarmi. E Gaber. E De Andrè.
Mi raccontavi che tu ascoltavi Fabrizio fin dal primo disco. Eri l’unico in paese ad ascoltarlo. Poi sono arrivati gli altri. Ma dopo di te. Come se avessi avuto un orario da rispettare anche lì. E quanta musica hai ascoltato, papà. Quante volte mi hai raccontato dei Genesis o di Tagliapietra de “Le Orme”.
Tu Gaber l’hai pure visto dal vivo. Io sono nato troppo tardi. Pure sta sfiga ho avuto, papà. E ti ho fatto conoscere Oliviero, te lo ricordi? Tu che mi dicevi che scriveva da Dio. Che era un poeta. E’ diventato amico mio, papà. Uno dei miei più cari amici. Perché non l’hai fatto amico tuo? Perchè tu dovevi partire alla sera, lasciavi a me gli onori. Tu prendevi gli oneri. Li pigliavi con tutte le mani, sti oneri. Come fossero un volante, da girare, sempre. E sempre per quello stipendio da fame a fine mese. Per dare quei cazzo di soldi al figlio “artista”. Mamma mia, quanto la odio sta parola. E’ un’etichetta che non riesco a togliermi di dosso. E tu zitto! Zitto! Sempre zitto, Cristo!
Non mi hai mai dato uno schiaffo. Mai. E ne meritavo tanti. E m’avrebbero fatto pure un male cane, con quelle mani ruvide che c’hai. Però forse hai pensato che si andava a pari: mai carezze e mai schiaffi.  Così si educa un figlio. Così un cazzo, papà! Così un cazzo!
Che vuoi che ti dica, ora? Che io sono vicino ai trenta e tu hai passato i sessanta. Cosa vogliamo raccontarci? Che c’è un buco di una vita in mezzo. Perché tu eri sempre pronto a girare l’Italia con quella merda di camion. Che Dio mi faccia stare sempre lontano dai camion, papà. Li odio. Mi hanno impedito di essere tuo figlio.
I valori. I valori che mi hai passato papà, non li riconosco. Perché io non sono come te e tu questo non l’hai mai accettato.  O forse sì.
Io non spacco il minuto, mai. Io non sarei capace di fare venti ore in una scatola di lamiera, come te.
Io non farei mai la tua vita, papà.
Onestà e dignità. Queste sono le cose che mi hai sempre detto di ritenere sacre. Perché se devi camminare in centro del paese, lo devi fare a testa alta. E tu lo fai, papà. Chi vuoi che possa dirti niente? Chi? Io non posso, per mille motivi. O per uno. Perché siamo agli antipodi. Siamo due animali diversi. Io non riesco a trattenere niente, tu tutto. Io mi sono costruito una vita senza orari e stai a vedere che magari li frego. Li frego io quelli che c’hanno allontanati. Li frego perché io di strada non ne faccio.
Ho spaccato la faccia a uno, papà. Zigomo e setto nasale, e lui che sanguinava a terra. Perché non si deve permettere di infangare il tuo nome. Pensa te, papà. Io ho spaccato quello e tu dopo che mi è arrivata la denuncia m’hai pure detto una valanga di parole. Mi hai fatto la morale. Ma non lo capisci che l’ho fatto per te? Ho menato quello, per te. L’ho menato per i torti che ti ha fatto e che poi conseguentemente ha fatto a me. Quanto c’ha fatti soffrire, eh papà? Ma tu zitto, porco demonio, zitto sempre.
Vedi che non siamo uguali in niente? Lo vedi? Io l’ho spaccato a metà! Tu continuavi a subire, passivo a tutto. E allora di che onestà vuoi che parli? Con che dignità vuoi che mi rivolga a te che al posto di fare il padre, hai fatto il lavoratore.
E quando sarà ora, papà, quanto piangerò. Accetterò o no, il fatto che non ti ho mai detto un “ti voglio bene”?

No, papà. Con me hai sbagliato tutto. E io ho sbagliato tutto con te. Non ci siamo mai capiti. Fotti quel volante e mandalo affanculo, da parte mia.