Così lontani, così vicini.
Così diversi, così poetici.
Così pazzi, così folli.
Erano due creature al limite dell'illogicità Enzo Jannacci e Franco Califano.
Due menestrelli che parlavano un volgare autentico, molto più di quello di Dante, consci che pure Dante si sarebbe un po' incazzato e un po' divertito con loro.
Non hanno in comune niente Jannacci e il Califfo. Niente, tranne la morte.
E' proprio la livella a unire un filo rosso che parte dai sciuri milanesi e va a finire ai borgatari romani.
E chi si offendesse col termine "borgatari" s'andasse a leggere un Pasolini qualsiasi.
Milano e Roma, Roma e Milano. Due anime della stessa puttana messa lì a gambe aperte.
E loro davano voce a questa puttana, agli schiamazzi, alle occhiate, ai gesti, alle scopate dei milanesi e dei romani.
Enzo Jannacci e Franco Califano.
La Pasqua del duemilaetredici ci ha tolto due menestrelli impagabili. Quelli che erano poeti nell'anima e che si vergognavano d'esserlo.
Non lo dicevano ma lo erano.
Impossibile farne un confronto.
E quindi ricordiamoli con l'allegra follia di Enzo e la tamarra autorità di Franco.
Chè poi "Sfiorisci bel fiore", "Se me lo dicevi prima..", "Vincenzina e la fabbrica" piuttosto di "Minuetto" o "Tutto il resto è noia", passeranno alla storia. Già ci sono e a buon diritto.
Ricordiamo due ragazzi scapestrati degli anni trenta, che, loro malgrado, hanno unito Milano a Roma con un filo rosso di lacrime, in questa Pasqua povera del duemilaetredici.
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